La storia raccontata in una fiaba, come insegna Marie-Louise Von Franz, allieva di Jung, consente di studiare meglio i processi psichici e i simboli ad essi collegati in forma semplice e chiara. All’interno di una fiaba possiamo ritrovare la storia della psiche umana che, attraverso il superamento di rischi e pericoli, raggiunge una meta, una tappa evolutiva verso la formazione della personalità adulta. La fiaba diventa la metafora della storia della vita che attraverso rocambolesche avventure arriva alla sua piena maturazione. In altre parole gli eroi e le eroine delle fiabe combattono proprio per quei passaggi evolutivi che gli individui sono chiamati a compiere per raggiungere una piena autonomia psicologica ed affettiva che permetta lo sviluppo delle proprie potenzialità e risorse e l’instaurarsi di relazioni sentimentali sane e autentiche. Utilizzando l’approccio della psicologia analitica vedremo come le esperienze di vita contenute nelle più celebri fiabe possano guidare il lettore attraverso il difficile percorso alla scoperta della propria autenticità.
1.1 La vera storia di Peter Pan
1.2 La bella addormentata nel bosco e il processo di separazione individuazione
1.3 Il Falso Sé di Cenerentola
1.4 Identità e adolescenza: Elsa e Anna due facce della stessa medaglia
1.5 Attaccamento, nutrimento e perdita: la fiaba di Hansel e Gretel
1.6 Prendersi “cura” della relazione con sè stessi e con l’Altro
1.1 La vera storia di Peter Pan
“Crescere è una faccenda oltremodo barbara” afferma Capitan Uncino prima di battersi con Peter Pan.
In pochi sanno che la vera favola di Peter Pan era inizialmente un romanzo scritto da J.M. Barrie nel 1906 indirizzato ad un pubblico adulto e soltanto successivamente è stata arricchita di personaggi come Capitan Uncino e L’isola che non c’è per renderla adatta ai bambini. Il messaggio nascosto nella fiaba di Peter Pan, mito dell’eterna giovinezza, è in realtà drammatico e racconta l’infanzia incompiuta di un bambino per metà umano e per metà uccello rifiutato dal mondo degli adulti e per questo ostile, narciso e arrabbiato. In Peter alberga una parte adulta che non si è realizzata rimanendo cristallizzata per sempre a causa del dolore dell’abbandono degli affetti primari.
“Wendy voleva lasciarti perché sei incompleto” dice Capitan Uncino a Peter Pan e aggiunge “..lei preferisce crescere!”.
Nel personaggio ribelle di Peter Pan c’è molto della storia personale dello scrittore che ha dato vita al romanzo. James Barrie è infatti stato lui stesso un bambino al quale non è stato data la possibilità di esistere, esempio di una infanzia incatenata dall’enorme dolore della madre per la perdita accidentale del primogenito in un incidente. All’età di sette anni James incominciò a sostituirsi al fratello, indossando i suoi vestiti e immergendosi nello studio per difendersi dal dolore pietrificante della depressione materna per quel lutto non elaborato. Il “padre” di Peter Pan è allora il primo dei bambini sperduti dell’Isola che non c’è che non hanno una madre, o meglio, che hanno una madre psicologicamente inaccessibile, un caregiver non disponibile ad una relazione autentica basata sul riconoscimento perché sopraffatto dal dolore della perdita non elaborata.
La crescita psicologica di un bambino, che inizia fin dalla nascita e che porta gradualmente alla formazione di una individualità e di una personalità, è costellata di amore e fiducia ma anche di emozioni dirompenti e spaventose, di piccole di dosi di frustrazione, rabbia e senso di vuoto, essenziali per superare alcune tappe di sviluppo. E’ proprio Bion ad introdurre il concetto dell’identificazione proiettiva, un meccanismo attraverso il quale il neonato gestisce la propria rabbia e la propria angoscia proiettandola sulla madre ed entrando in contatto con i suoi pensieri. La funzione di contenimento messa in atto dalla madre riesce a restituire al neonato le proprie emozioni in modo più gestibile e meno spaventoso. Attraverso questa fondamentale funzione, chiamata rèverie materna (1962, Bion), il bambino inizia pian piano a sviluppare processi cognitivo-percettivi propri ed organizzati. Ma non sempre le cose vanno a buon fine. Eventi dolorosi, inespressi e mai elaborati dai genitori, possono interferire con la capacità di rielaborare e restituire al bambino, in una forma meno angosciosa, le proprie intense emozioni.
La fiaba, così come il sogno e il racconto, celano una tale carica e potenza emozionale che possono svolgere, all’interno di una psicoterapia, la funzione di un oggetto transizionale nel senso inteso da Winnicott. L’oggetto transizionale è un oggetto amato che i bambini scelgono per consolarsi e ricordare la madre quando non c’è. La fiaba con le sue immagini evocative parla dritto al cuore delle persone indicando la via per l’autonomia e per la realizzazione dell’individuo affrontando in modo più creativo le sfide della vita. Esiste poi un meccanismo di identificazione con l’eroe della fiaba, attraverso il quale la persona può percepire e fare propria tutta la forza e il coraggio nel prendere decisioni importanti e sperimentare soluzioni creative. L’insegnamento che possiamo trarne è anche quello di affrontare i problemi attraverso l’utilizzo della creatività, una capacità cognitiva della mente che tutti possediamo, anche se, pensiamo di non averne abbastanza considerandola una capacità propria solo degli artisti. Attraverso un percorso di sostegno e introspezione che possa guidare l’individuo a riappropriarsi della propria autenticità, della propria autonomia psicologica sarà possibile diventare finalmente protagonisti della propria esistenza. In questo modo anche il Peter Pan presente dentro di noi potrà finalmente affermare che “vivere può essere una nuova splendida avventura!”.
1.2 La bella addormentata nel bosco e il processo di separazione – individuazione
“…Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia” (Jung). Con questa suggestiva affermazione, il padre della psicologia analitica, parla dell’importanza della conoscenza di sé stessi e della consapevolezza dei propri stati interni per instaurare relazioni sane e gratificanti con gli altri, ma ancor prima con sé stessi!
Sia nella fiaba della Bella Addormentata nel bosco che nel più recente Maleficent, remake del grande classico Disney, che ha sbancato i botteghini nel 2014, viene narrata la storia della principessa Aurora. Addormentata da un maleficio di una strega, simbolo degli aspetti distruttivi del materno, Aurora rappresenta tutte quelle adolescenti che non riescono a prendere coscienza di sé stesse rimanendo imbrigliate nella dipendenza infantile nei confronti dei genitori. Come accade in un percorso di psicoterapia, restituire vitalità a ciò che è cristallizzato nel profondo del nostro inconscio, è un viaggio faticoso, spaventoso e a tratti doloroso ma che non si compie in solitudine e nasconde una grande opportunità: quella di poter essere finalmente sé stessi e poter incontrare l’altro. Nella fiaba originale il principe impiega cento anni, lottando contro draghi e attraversando foreste di rovi, per raggiungere la principessa Aurora e ricongiungersi a lei integrando aspetti femminili e maschili della personalità. Il messaggio insito nella fiaba parla dell’impossibilità di un processo di separazione fra una madre e la propria figlia; un rapporto totalizzante che non permette a quest’ultima di percepirsi come soggetto separato e autonomo con propri sentimenti, affetti ed emozioni. Questo rende l’adolescente Aurora paralizzata, rigida e bloccata, inaccessibile all’incontro con il maschile e dunque “non generativa”. Non è un caso che le persone, che permangono bloccate in dinamiche familiari che somigliano a delle sabbie mobili, difficilmente riescono ad avere relazioni sentimentali soddisfacenti e generative perché non esiste uno spazio mentale per essere padri o madri, prima ancora che figli. Prolungare il sonno, assume in questo caso il significato di rimanere nel limbo dell’infanzia per compiacere le aspettative genitoriali e non turbare gli affetti primari. Tutto ciò comporta un prezzo molto alto da pagare: la rinuncia a compiere la propria realizzazione personale e quel viaggio alla scoperta della propria vera natura.
Proprio quel delicato processo di crescita che definiamo “nascita psicologica” avviene attraverso delle fasi e rimane sempre attivo lungo tutto il ciclo vitale della persona. Il bambino, secondo i recenti studi dell’Infant Research sviluppa la sua psiche sintonizzandosi sulle modalità della madre e adattandosi ad esse e il processo di “separazione-individuazione” è proprio quel percorso evolutivo graduale che porta il bambino a differenziarsi e a sviluppare un Sé autonomo e separato (Malher, 1978). Anche Jung, nel saggio “Coscienza, inconscio e individuazione”, utilizza il termine “individuazione” per indicare “quel processo che produce un individuo psicologico, vale a dire una unità separata, indivisibile, un tutto” (Jung, 1939). Si tratta di un percorso complesso e affascinante che vede solo il suo inizio nell’infanzia e si completerà nel corso dell’esistenza.
1.3 Il Falso Sé di Cenerentola
Ogni bambino per crescere e sviluppare un buon legame di attaccamento deve percepirsi unico, accolto e amato in tutta la sua straordinaria complessità. Crescere in un ambiente rispondente e rispettoso permetterà la costruzione di una salda autostima e l’espressione di tutta una gamma di emozioni fondamentali per lo sviluppo della personalità. Il bisogno di accettazione del bambino da parte dell’adulto, lo rende estremamente sensibile ai messaggi dell’ambiente tanto che risponderà ad un ambiente poco accogliente soffocando aspetti della propria personalità ritenuti “non buoni”. Il perdurare di questo atteggiamento potrà portare il bambino a sviluppare un Falso Sé (Winnicott, 1975) e a non integrare all’interno del sé tutti gli aspetti della personalità ma soprattutto quelli considerati “meno nobili” ma non per questo meno importanti per la crescita. Basti pensare all’importanza di certe emozioni come la rabbia, risposta fisiologica sana e protettiva, per lo sviluppo dell’autodeterminazione della persona e dell’assertività in età adulta. Anche nella favola di Cenerentola ritroviamo l’importanza dell’integrazione della personalità. Cenerentola costituisce una icona e simbolo di tutte quelle qualità positive che vengono richieste ad una bambina dal suo ambiente quando nasce: è mite e generosa, si prende cura degli altri, bella e volenterosa. Le tendenze meno nobili vengono proiettate sulle sorellastre, l’esatto opposto di Cenerentola. Ritroviamo spesso nelle fiabe questa dicotomia e lo sdoppiamento fra personaggi buoni e cattivi.
Quello che accade ai personaggi delle fiabe può verificarsi anche alle bambine e ai bambini che sperimentano sentimenti intollerabili nel momento in cui percepiscono il rifiuto dell’ambiente nei confronti del loro modo autentico di essere. Il messaggio della fiaba non vuole essere di censura e rimozione delle parti in ombra ma offre, anzi, una prospettiva di superamento. Allo stesso modo lo psicoterapeuta accoglie il paziente all’interno dello spazio della terapia accettando tutti i suoi aspetti per aiutare il paziente a liberarsi le strette vesti del Falso Sé e tessere insieme e ricucire un nuovo abito all’interno del quale sentirsi finalmente sé stessi anche accettando la propria contraddittoria natura.
1.4 Identità e adolescenza: Elsa e Anna due facce della stessa medaglia
La fine dell’adolescenza sancisce un momento cruciale nello sviluppo della personalità, è possibile iniziare a definire tratti e confini di quel senso di identità che rimarrà pressochè stabile nel tempo. Il mondo interiore complesso, contraddittorio e strutturato dell’adolescente prende vita e si incarna nei personaggi di Elsa e Anna, sorelle e moderne eroine del regno di Arendelle. Elsa, incompresa e sola, ha bisogno come tutti gli adolescenti di poter condividere i suoi dirompenti sentimenti con qualcuno che sappia “maneggiarli”, riconoscerli e accettarli. Non sempre questo “qualcuno” possono essere i genitori che, come nella favola, spesso in questo particolare momento della vita vengono percepiti dai figli come istanze super-egoiche castranti (i genitori di Elsa non essendo in grado di aiutare la figlia preferiscono metterle dei guanti per celare al mondo la sua dirompente energia segregandola in casa). Anna, ingenua e poco consapevole delle proprie emozioni anche se apparentemente più integrata nella società e aperta al prossimo, si butta a capofitto in una relazione che si rivelerà dolorosa e non autentica. Elsa e Anna rappresentano aspetti molteplici di un Sé adolescenziale scisso e in conflitto fra paura e esaltazione, vergogna e accettazione, vuoto e desiderio.
Questa scissione fra gli aspetti del Sé non permette di compiere quella integrazione armonica della personalità e quel viaggio verso la ricomposizione della propria soggettività. Tutto ciò sarà fatale per Anna portandola a compiere scelte sbagliate, frettolose, basate sul bisogno di sentirsi amati e più che sul desiderio.
1.5 Attaccamento, nutrimento e perdita: la fiaba di Hansel e Gretel
La fiaba di “Hansel e Gretel” aiuta a comprendere un altro aspetto importante della prima relazione con gli affetti primari: quello del legame di attaccamento e lo stretto rapporto fra il cibo e il nutrimento affettivo di cui ritroviamo degli esempi in tutte le culture. Il legame di attaccamento, che si sviluppa nel primo anno di vita del bambino, rappresenta la base per la creazione di un legame con l’altro, influenza lo sviluppo della personalità regolando l’atteggiamento verso la realtà esterna, la visione di sè stessi in relazione agli altri e le aspettative nei rapporti affettivi. Gli studi di Bowlby e le successive scoperte dell’Infant Research, dalla Ainsworth a Mary Main, hanno osservato relazioni sistematiche fra il legame di attaccamento sperimentato nell’infanzia e lo stato mentale dell’adulto individuando quattro categorie: sicuro, evitante, preoccupato, disorganizzato a seguito di lutti o traumi irrisolti. L’aver sperimentato un buon attaccamento nell’infanzia permette il distacco dalle figure genitoriali mentre la dipendenza lo impedisce. Se una mamma, è per un periodo, nutrimento personificato per i bambini, basti pensare al periodo dell’allattamento al seno, affinchè sia possibile una maturazione dell’io è necessaria una separazione. Nella fiaba ciò è rappresentato dai genitori che allontanano i figli da sé portandoli nel bosco per sperimentare il senso dell’abbandono rispetto al cibo-amore. Il bambino sperimenta inizialmente una dimensione narcisistica fusionale con la madre, si trova con lei in una sorta di paradiso terrestre dove non ha bisogno di nulla, potremmo dire in assenza di vuoto e desiderio. La crescita implica l’abbandono di questo paradiso e nell’andare verso una dimensione di vuoto il bambino scopre il “tu”, scopre l’esistenza dell’Altro da sé. Questo vuoto, che non spaventa perché la memoria dell’unione precedentemente sperimentata con la madre lo ha nutrito a sufficienza, può essere riempito dal bambino e dall’adolescente con il “desiderio”, con il desiderio dell’Altro. Se prendiamo ad esempio il percorso psichico narrato nella fiaba di Hansel e Gretel vediamo che si tratta proprio di un percorso di solitudine e riscatto fino alla scoperta di un tesoro ancora più grande che chiamiamo Sé.
I due bambini riusciranno ad operare quella separazione che gli permetterà l’individuazione proprio gettando la strega nel forno, simbolo di trasformazione del cibo e quindi delle emozioni. Anche in questa fiaba ritroviamo l’archetipo della strega, simbolo di quei legami familiari totalizzanti, tossici e a volte distruttivi. Proprio come i protagonisti della fiaba siamo chiamati a fare i conti con il dolore della perdita ma per scoprire un dono più grande dal quale nessuno potrà mai separarci: noi stessi. La casa di dolciumi della fiaba diventa contenitore di altri significati. L’immagine della casa evoca un “rifugio”, un luogo in cui poter finalmente togliere la maschera abbassando le difese, spogliarsi delle sovrastrutture ed essere semplicemente autentici! Una casa prima di essere un luogo, è uno spazio che ci portiamo dentro. Diventa luogo di espressione di sé, di narrazione della propria storia.
Il messaggio della fiaba insegna che confrontarsi con la perdita è una fase da attraversare per ritrovare una bussola da utilizzare nelle relazioni affettive. Se l’adulto non ha potuto compiere lui stesso questo fondamentale passaggio evolutivo sarà molto difficile, se non impossibile, che riesca a farlo il figlio. Un bambino che ha potuto sperimentare il vuoto sarà un bambino competente nel gioco, che mostrerà confidenza con la fantasia e sarà un adolescente che potrà provare desiderio, interessi, passioni. In questo senso il vuoto assume il significato di un luogo transizionale per dirla con le parole di Winnicott. All’interno di “Simboli della trasformazione” Jung rilegge il mito di Edipo sottolineando come il bambino possieda una naturale carica che lo porta verso la scoperta del mondo; se questa funzione viene sostenuta dai genitori allora il bambino, percependo il sostegno, si aprirà al mondo evitando di regredire verso uno stato fusionale con le figure genitoriali.
1.6 Prendersi “cura” della relazione con sè stessi e con l’Altro
In conclusione, abbiamo visto che il sentimento di non sentirsi amati, di bassa autostima, di sentirsi abbandonati, incompresi e soli che sperimentiamo all’interno di un rapporto di coppia è un sentimento che affonda le radici nel nostro passato: in una esperienza primaria di non riconoscimento o accettazione che si è profondamente radicata influenzando tutte le relazioni successive. Modelli di attaccamento disfunzionali non elaborati, possono portare a scelte sentimentali sbagliate. Nelle relazioni di coppia in cui manca una reciprocità ritroviamo quasi sempre uno stile di attaccamento insicuro e ambivalente o la paura dell’abbandono; degli adulti ai quali da bambini non è stato concesso di “esistere” e allontanarsi dalla dimensione narcisistica fusionale primaria. All’interno di queste relazioni non si può fare l’esperienza del “vuoto”, l’individuo può tollerare che l’altro “non esista” ma non può tollerare che l’altro possa esistere in modo differenziato e indipendente da sè. In queste coppie ritroviamo delle modalità relazionali abusanti dove l’altro, in cui prevale un senso si sé come non degno di amore, è un mezzo di soddisfazione dei propri bisogni e non il fine; non c’è desiderio dell’altro ma solo onnipotenza e un totale bisogno di possesso. Per affermare il proprio narcisismo e soddisfare il proprio bisogno di conferme, non si lasciano liberi i propri partner di esistere come individui separati, così come non si lasciano liberi i figli di abbandonare quel paradiso primario, non si permette ai propri figli di “morire”, metaforicamente, per poi rinascere.
Scegliere di iniziare un percorso terapeutico significa prendersi cura di sé; avere la possibilità di rivivere nel contesto protetto della relazione terapeutica un’esperienza psichica e relazionale “sana” e un legame di attaccamento che possa costituire una base sicura da cui ripartire per esplorare il mondo. Nella vicinanza con l’altro siamo nuovamente vicini a noi stessi e possiamo ritrovarci, senza maschere, riscoprendo il valore della nostra unicità e acquisendo autentiche e più funzionali modalità di stare in relazione con l’altro.
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